Il Tao, la ricerca del vuoto e l’armonia

Com’è noto, il Taoismo affonda le sue radici nell’antica cultura cinese, proponendosi in differenti forme e caratterizzando l’arte, la vita, la medicina e la spiritualità dell’Estremo Oriente.
Questa filosofia morale, panteista ed enoteistica, origina nella Cina dei secoli VII-I a.C., da una commistione fra l’antica scuola “naturalista” e la percezione spirituale ed innovativa, visionaria e profetica per molti versi, di Laozi, vissuto fra il VI ed il V secolo a.C. ed Autore del celebre Tao Te King e, forse, del meno famoso (ma non meno importante), Hua Hu Ching, letteralmente “Classisco della conversione dei barbari”; testo secondo il quale lo stesso A. si recò in India e qui divenne il Buddha.

Questo libro, più dell’altro, è la perfetta espressione delle basi della per la medicina olistica cinese, della meditazione del Feng Shui e del’interpretazione dell’Yi Ching secondo la visione, appunto, taoista. In questo testo è molto sviluppato, oltre al celebre Wu Wei (azione che non è azione), quello di “Vuoto” (Xu), come metodo e “via” per raggiungere l’ordine cosmico e la pace interiore. Se infatti è incontrovertibile che, per il Taoismo, occorre in primo luogo lasciar fluire la natura delle cose e la propria natura, affinché questa si plasmi come meglio sia possibile, trovando la sua armonia in relazione all’universo; è altrettanto incontestabile che la ricerca sia attuata nel vuoto interiore che ciascuno deve saper operare mettendo pace e freno fra desideri ed emozioni contrastanti.

Il più celebre e chiaro riferimento al vuoto che la tradizione taoista ci ha insegnato è quello contenuto al capitolo XI del Tao Te Ching (o Daodejing che si voglia): “Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo, l’utilità della vettura dipende da ciò che non c’è. Si ha un bel lavorare l’argilla per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è. Si ha un bell’aprire porte e finestre per fare una casa, l’utilità della casa dipende da ciò che non c’è. Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non c’è”.

Questo problema del “vuoto” è affrontato dal taoismo classico non solo in termini di spazio, ma anche in termini di tempo. Esaminando i pieni e i vuoti di questo mondo, la misura degli esseri è infinita; il loro tempo non ha termine; la loro condizione non ha permanenza; il loro principio e la loro fine non hanno durata. Ciò significa, evidentemente, che ogni cosa, sia essa un ente o un fatto culturale, essendo intessuta ed imbevuta di tempo, si consuma.
Tuttavia la questione è più complessa di quanto questa prima ed elementare spiegazione possa far pensare. Innanzitutto è da ricordare che, come il vuoto spaziale non è pura assenza di spazio né spazialità assoluta, così, nel caso della temporalità, il vuoto temporale non è semplice assenza di tempo né temporalità assoluta, cioè tempo indefinito e indeterminato. Il vuoto temporale, come quello spaziale, ha una funzione dialettica: come lo spazio vuoto si dà solo in rapporto allo spazio pieno e viceversa, così il tempo vuoto, ossia quello che si potrebbe chiamare “tempo assente” – il quale si determina come ” già stato” (passato) e come ” non ancora” (futuro) – si dà solo in rapporto al tempo presente, e viceversa.
Inoltre, come il vuoto spaziale è “trascendentale” perché interno a ciascuna cosa particolare ma anche perché funge da condizione di possibilità per la dislocazione di ogni cosa particolare, così pure il vuoto temporale, il tempo dell'”assenza”, è trascendentale sia nel senso che appartiene a ciascuna cosa particolare, ma anche nel senso che è condizione di possibilità per la durata di ogni cosa particolare. In definitiva, ciò che li AA taoisti vogliono insegnarci, è che per far agire il Tao (o Dao) è necessario il non agire (wu wei), ma per praticare il non agire è necessario praticare il vuoto, far agire il vuoto. Ma questo vuoto, da ricercare nel silenzio meditato e nella riflessione paziente e cosciente sulla propria vita, non equivale certo al nulla. Il vuoto Taoista (come la vacuità Buddista e Zen), significa che la mente non si fissa sul bene o sul male, sull’essere o sul non-essere, sul dentro o sul fuori o da qualche parte tra i due, sul vuoto o sul non-vuoto, sulla concentrazione o sulla distrazione . Questo “dimorare nel vuoto” è lo stato in cui tutti dovrebbero accedere, per passaggi successivi, onde raggiungere “la mente che non dimora”; in altre parole, la mente del Principio Creatore. Poiché il Tao è all’interno di ogni cosa che esiste — anche nell’uomo — essendo la più intima e sottile energia che fluisce attraverso il tutto, che condensata va a formare quella che è la materia, solo ricreando in noi e attorno a noi il vuoto è possibile percepire ed afferrare tale energia.

In definitiva la ricerca progressiva e caparbia del “vuoto”, dell’eliminazione dell’inutile, ci porta a comprendere che l’Ente va cercato all’interno di se stessi, e all’interno di tutte le cose che compongono il mondo multiforme di cui l’uomo fa parte, proprio perché il cosmo, l’universo sono la manifestazione attiva dell’essenza divina. Il Tao è la natura, il respiro, la vita di tutte le cose, una vita che ha molte forme, ma che procede e proviene dal “vuoto primordiale”. Ora, va detto, che in quanto tale il Tao non è nè concepibile nè conoscibile dalla mente umana. Ciò che l’uomo può percepire sono le sue emanazioni, le sue molteplici e multiformi immagini. Ma per percepirne l’essenza, occorre raggiungere, svuotandosi di contenuti emotivi inutili e sovrastrutture culturali, tre gradi purezza che corrispondono ai cosiddetti Tre Puri, generati dalla Divinità quando iniziò a manifestarsi scindendosi nelle due forze primordiali yin e yang e in tutte le manifestazioni scaturite dalla loro eterna interazione. Ci si può ritirare dal mondo per comprenderlo meglio, ma non è né necessario, né sufficiente.

Per realizzare questa liberazione, per trovare il vuoto, uno dei mezzi importanti è l’utilizzo dei paradossi. L’obiettivo dei paradossi è far comprendere all’uomo la Via, tracciando dei fili logici che vadano oltre la logica corrente. Il paradosso permette di superare gli inganni della logica e della razionalità, di seguire il ritmo del cuore che “palpita nel vuoto consapevole”, di suscitare, infine, una sorta di pacifico naturalismo che è un ideale di spontaneità, di libertà individuale, di rifiuto dei rigori della vita sociale e di comunicazione estatica con le forze cosmiche. Questa idea salvifica del vuoto si fonda certamente su antichissime credenze sciamaniche (wu), secondo cui se si lascia fare la natura, essa soddisferà l’uomo in pieno.
In altri termini, senza il vuoto e la separazione, si riconosce la forza lineare e progressista delle vicende umane e si sottolinea amaramente il ripetersi degli stessi vecchi errori nei nuovi contesti, portatori, senza vuoto che è discontinuità naturale, di una sorta di ciclica staticità, senza via d’uscita. L’idea di Vuoto Taoista ha certamente influenzato il concetto di Zhōngyōng (Giusto Mezzo) di Confucio, espresso in uno dei Quattro Libri (che ha lo stesso nome, Zhōngyōng) del suo Canone, che, in 33 capitoli, definisce le modalità di un cammino verso la virtù perfetta e si concentra sulla via (Dao) prescritta per mandato del cielo a tutti gli uomini.

Per i Taoisti e per Confucio, poiché la natura e l’uomo sono tutt’uno, il non provare sentimenti ed emozioni porta a vivere in uno stato di equilibrio e quando sentimenti ed emozioni vengono suscitati, devono tendere all’armonia col resto del mondo. L’uomo può mantenere l’armonia seguendo il giusto cammino. La ricerca del giusto mezzo non implica debolezza, ma forza. Il giusto mezzo è una particolare condizione di serenità interiore che consente all’uomo di vivere senza sofferenze la sua condizione, rispettando i superiori e gli inferiori, esercitando la pietà e compiendo il suo dovere, senza cercare di distinguersi con atti fuori dall’ordinario.