E cinque, ma con speranza

di Carlo Di Stanislao

Fiaccolata



La speranza è un sogno ad occhi aperti
Aristotele

Sperare vuol dire rischiare la delusione. Ma il rischio va affrontato perché il massimo rischio nella vita è di non rischiare mai. Soltanto chi rischia è libero
Italo Nostromo

Stamani poco prima dell’una, nel Crotonese e pochi giorni fa in Cile, il demone sotterraneo che chiamiamo terremoto ha liberato di nuovo la sua furia insensata, mentre ci prepariamo mestamente a celebrare il quinto anniversario della nostra sventura, con le fiaccole mute e le campane che segneranno la fatidica ora, in un ricorda che il tempo non scolora. La città resta ferita, gravemente avvolta in una agonia disperata, con un centro ancora non vitale ed una periferia che è divenuta infinita, fra news town e difficoltà di ogni tipo, con una comunità che non si ricompatta e continua a vagare, fra rabbia e prostrazione.

I numeri sono allarmanti e gli sguardi giornalieri abbattuti, con un buco di 11 milioni nel progetto C.A.S.E. e le 185 palazzine antisismiche che dovevano essere l’orgoglio dell’ex cavaliere, che accolgono ancora 11.600 persone, con i pavimenti che si sollevano, i sistemi di protezione sospetti, le tubatura già logore ed il nulla tutto intorno: un cinema, una biblioteca, un consultorio, un teatro, con la necessità di prendere la macchina, per ogni anche minimo bisogno. Stasera guarderemo con occhi più tristi il centro che non risorge, ricordandolo un tempo prezioso e ricco di meraviglie architettoniche e artistiche, ora sigillato da una barriera impenetrabile, dove tutto è un cantiere e dove il silenzio della notte mette ancora i brividi, mentre l’unica forma di vita sono le sguaiate ubriacature di studenti in cerca di vita, in un luogo che trasuda solo morte e abbandono.

“Imprese eccezionale essere normali” in questa città, ha scritto due giorni fa su Repubblica Fabrizio Palladini, perché non esiste un solo frammento di vita normale e noi tutti normali non siamo. Al Parco del Sole e davanti alla Basilica di Collemaggio c’è chi legge, chi fa ginnastica, chi amoreggia, chi dipinge paesaggi, ma non è più la stessa cosa. Tutto è come sospeso, avvolto in drappo cinereo, avvolto in una lingua di morte che sospende la vita e ne impedisce il respiro e il ritorno. Scrive la sempre indomita Stefania Pezzopane che la nuova governance funziona e la delega del Sottosegretario Giovanni Legnini alla ricostruzione è per noi un’ulteriore garanzia, ma aggiunge che si ha bisogno di soldi, di un miliardo l’anno per almeno cinque anni, se, nel 2019, potremo poter dire , nel decennale del sisma, che L’Aquila è risorta.

Ma i miei occhi, con altri occhi, sconsolati, guardano le gru e i palazzi sventrati, le piazze divelte e deserte, i vicoli e le chiese e pensano che un decennio non sarà ancora abbastanza. La disperazione è il peggiore dei mali dell’anima, poiché le energie si spengono, le speranze si affievoliscono , lasciandoci inermi e vuoti di fronte alle situazioni alle quali non sappiamo più dare alcuna risposta.
Secondo il filosofo Salvatore Natoli la disperazione è “un modo di stare al mondo”; due sono le disposizioni che la creano: “il sentimento della vanità del tutto” e “l’eccesso d’ordine”. Questo accade perché “in entrambi i casi è inibita l’azione: e ove nulla si può fare subentra la disperazione”.

In questo contesto ci avvediamo di essere vittime di uno scontro interiore, fra la caducità delle cose (e delle azioni) e la impossibilità a fermare questa logica. Così finiamo col girare su noi stessi, autocentrandoci e autofagocitando solo gli aspetti negativi della nostra nuova, distrutta esistenza, privandoci della prospettiva di uscirne. Ma una possibilità c’è sempre e va trovata, tenacemente inseguita e sperata, soprattutto nei momenti di buio e nel più profondo dei baratri della nostra coscienza.

Penso, così, alla “Regola Benedettina”, che si focalizza non sulle limitazioni, ma nella creativa e vigile costruzione continua di un cambiamento interiore ed esteriore, principio in base al quale ciascuno è chiamato a dare il meglio di sé sia per la propria realizzazione e felicità, sia per la condivisione e la koinonia nella vita comunitaria. È per questa ragione che i chiostri sono rettangolari o quadrati, per incanalare la visione prospettica verso l’alto e impedire quella laterale da diverse angolature, sicché ogni situazione da luiodo a una situazione opposta, che permette un altro punto di vista, un’altra visione da cui imparare a progettare un nuovo futuro e un diverso orizzonte.

Diceva Schopenhauer: “Siamo tutti nati in Arcadia, tutti veniamo al mondo pieni di pretese di felicità e di piaceri, e nutriamo la folle speranza di farle valere, fino a quando il destino ci afferra bruscamente e ci mostra che nulla è nostro, mentre tutto è suo, poiché esso vanta un diritto incontestabile non solo su tutti i nostri possedimenti e i nostri guadagni, ma anche sulle nostre braccia e le nostre gambe, sui nostri occhi e sulle nostre orecchie, e perfino sul nostro naso al centro del volto. Poi viene l’esperienza e ci insegna che la felicità e i piaceri sono soltanto chimere che un’illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano direttamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa“. Se il suo insegnamento viene messo a frutto, smettiamo di cercare la felicità e i piaceri e ci preoccupiamo solo di sfuggire per quanto possibile alla sofferenza e al dolore. E questo già basta.

Basta per noi, oggi e da oggi in ogni giorno, ricordare con Aristotele che : “L’uomo saggio non persegue ciò che è piacevole, ma l’assenza di dolore”, rendendoci conto che il meglio che il mondo ci può offrire è un presente sopportabile, quieto e privo di dolore e che ogni istante va apprezzato, aspirando senza posa a gioie immaginarie e future, senza farci congelare da preoccupazioni su un futuro sempre incerto. Perché: “Spes ultima dea”, ultima a restare tra gli uomini, a consolarli, anche quando tutti gli altri dèi hanno abbandonano la terra.

Come dice il filosofo Rorty, su una “metanarrazione”, che sarebbe come dire una ideologia, una visione del divenire del mondo, sarà proprio la speranza, da attuarsi nel presente e non delegare al futuro, l’unico modo per recuperare dimensioni che abbiamo trascurato, ad esempio quella della bellezza, che ci circondava e ci permeava, ritornando a farne il vero centro per una nuova, o rinnovata visione del mondo, a partire da una nuova visione di noi come comunità e, infine, come città. La bellezza magari non salverà il mondo, come pensava il principe Miškin, ma potrebbe salvare noi dalla disperazione.