Vecchie e nuove tirannie. Ovvero discorso su tirannia e totem

A cura di: Carlo Di Stanislao, Rosa Brotzu, Tiziana D’Onofrio, Giuliana Franceschini

Totem

Questo è il mio insegnamento: tutti gli uomini sono pazzi. Ma alcuni, impazzendo assieme, uccidono la peggiore delle pazzie:
la tirannide di pochi.

Omero

Ciascun governo istituisce leggi [nomoi] per il proprio utile; la democrazia fa leggi democratiche, la tirannide tiranniche e allo stesso modo gli altri governi. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i governati si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile, e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore sia della legge sia della giustizia. In ciò consiste, mio ottimo amico, quello che dico giusto, identico in tutte quante le poleis, l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza. Così ne viene, per chi sappia ben ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre identico all’utile del più forte
Platone

Noi non potremmo nemmeno incominciare ad agire, non potremmo affrontare il futuro oscuro, incerto, imprevedibile senza la speranza.
La speranza è perciò prima di tutto un dono, è “grazia” ma ogni singolo uomo ha anche delle risorse morali positive su cui contare.
Forza d’animo, adattamento, apprezzamento per la vita, capacità di superare gli ostacoli, di affrontare nuovi problemi, di cercare la propria anima, di dedizione, di amicizia, oblazione, di prendersi cura

Baruch Benedetto Spinoza

Dalla paura di tutti nasce nella tirannide la viltà dei più
Vittorio Alfieri

Per lo storico Raymond Aron, il totalitarismo costituisce una sfida intellettuale ineludibile, che pone il problema del perché, in certe situazioni, gli esseri umani appoggino regimi di tipo totalitario. Nel 1938 Aron aveva cominciato a stendere uno studio sul “machiavellismo moderno”, nell’ipotesi che i regimi nazista, fascista e comunista potessero interpretarsi anche come estreme manifestazioni di una tradizione antica, senza alcuna esitazione nel rifiuto politico e morale della dittatura; ma anche con una forte consapevolezza che nessun fenomeno che coinvolga milioni di uomini e di donne può essere spiegato sostituendo la condanna all’analisi storica. Da quando l’uomo si è dato un’organizzazione sociale, politica e civile cercando di convivere in comunità si sono evidenziate le contraddizioni tra potere e libertà.

Io analizzerò queste contraddizioni partendo dallo studio del pensiero di Tacito, e di quello stoico di Seneca per arrivare al nostro modello di società, che pur essendo ritenuto avanzato sia sul piano sociale che civile, mostra ancora evidenti idiosincrasie tra potere e libertà. Il percorso quindi oltre allo studio del pensiero di Seneca e Tacito evidenzierà le contraddizioni: analizzando la storia del sommo Poeta, costretto all’esilio a causa proprio del Potere; descrivendo le soluzioni che Marx darà per superare il contrasto; tenendo presente la critica feroce che Orwell indirizzerà ai regimi totalitari del ’900 e la sua visione distopica del futuro legata proprio al contrasto tra potere e libertà; analizzando la ferocia dei regimi totalitari e in particolare di stalinismo, nazismo e fascismo descritta da numerosi superstiti e da scrittori che hanno vissuto i fatti in prima persona, tra i quali Carlo Levi che meglio ha saputo evidenziare l’oppressione e la repressione attuata dal fascismo in Italia tra il 1922 e il 1943.

Una grande lezione, per non usare sempre quella di Platone, ci viene da Seneca che nel De clementia afferma che le forme di comando sono diverse, ma unico è il sistema di comandare per il principe verso i cittadini, per il padre verso i figli, per il maestro verso i discepoli, per l’ufficiale verso i soldati. Il metodo migliore è sempre quello della persuasione e dell’ammonizione, mai quello della minaccia e del terrore. Neppure verso gli animali questo è il metodo più efficace. Questo vale tanto più per il sovrano, che come il medico deve indurre i malati alla speranza della guarigione e non condannarli ad una fine irrimediabile; la massima gloria deriva al principe dal sottrarre i cittadini all’ira propria e altrui. Il re è il capo dello stato, i sudditi sono le membra, perciò questi sono pronti a ubbidire al re come le membra ubbidiscono al capo e sono disposti ad affrontare anche la morte per lui: “Egli, infatti, è il vincolo grazie al quale sussiste unito lo Stato, egli è lo spirito vitale che tutte queste migliaia di uomini respirano. Essi, di per sé, non sarebbero null’altro che un peso e una preda per altri, se quell’anima dell’Impero venisse a mancare”.

La libertà, quindi, per Seneca, quella vera, è dentro di noi e nessuno può comprimerla: nella sapienza, nel disprezzo del nostro corpo caduco è la libertà più sicura. Se sapremo rivolgerci a cose più grandi della schiavitù del corpo, conquisteremo la libertà interiore, diventeremo possesso di noi stessi. “Mi domandi quale sia la strada per andare verso la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo”. Dello stesso avviso sono Catone e Dante, mentre il Manzoni, secoli dopo, risolve il problema ponendolo su un piano escatologico, con una dialettica fra uomo e uso della libertà e dell’affrancamento dalle angherie di un potere opprimente. Dopo, gli ideali liberali e patriottici dei moti del 1814 contro Napoleone, come quelli l’incompiuta canzone “Il proclama di Rimini” (1815) e più tardi l’ode “Marzo 1821”, scritta in occasione dei moti piemontesi e spirante un sentimento religioso della libertà politica, riportano gli stessi temi su una struttura dai contenuti cristiani. Ma poi, dopo Marx e dopo Orwell, risolvere il problema sul piano teoretico e pratico diviene enormemente più complicato.

Sempre grazie alla manipolazione del linguaggio lo Stato riesce a cambiare il corso della storia passata e presente ammettendo verità opposte e facendo accettare qualsiasi menzogna del partito. In questo tipo di società chiunque non la pensi come il partito è una cellula malata e la sua malattia è quella di voler essere un uomo libero. In questo modo qualsiasi atto contrario al partito diviene un atto politico, infatti, quando i protagonisti ribelli faranno per la prima volta l’amore il loro sarà un “political act”. Da questo mondo dominato dal potere e che cancella qualsiasi libertà non c’è via d’uscita, non è più possibile, per Orwell, l’utopia. In Orwell vi è l’ammissione della sconfitta di ogni spirito di libertà, di tensione al futuro, al progetto, vi è la totale identificazione del modello con la realtà, l’utopia non è più possibile perché è venuto meno il referente; al suo posto c’è il simulacro, il potere svincolato dal fine che non ha più come scopo l’organizzazione del sociale, ma è gioco gratuito fine a se stesso.

Oggi che il “day after” è già arrivato, che il 1984 è già passato, possiamo leggere e rileggere Orwell e vedere cosa ha indovinato dei nostri anni. L’annullamento delle differenze ideologiche fra le superpotenze, la tecnologia come mezzo di controllo sociale, la persecuzione degli oppositori politici in Africa e in Sud-America, la strumentalizzazione dei mass-media. Più che saggio sarebbe raccogliere questo grido d’allarme contro l’indifferenza che tollera forze annichilenti la libertà e la dignità individuale. In questo modo la tirranide priva l’uomo di totem di clan e ne costruisce altri, falsi e comuni a tutti.

L’etimologia di totem deriva dal vocabolo corrotto di oteteman che, nella lingua degli Indiani della regione dei Grandi Laghi, significa: “egli è della mia parentela” e oggi il termine indica il complesso delle credenze e dei riti attraverso i quali si manifesta la parentela di un clan con un animale o anche con una pianta, considerati di solito l’antenato mitico. L’oggetto totemico (in prevalenza animale) sarebbe l’emblema del clan, il suo spirito custode, in alcuni casi l’antenato mitico o l’eroe fondatore della cultura. Per questo, tutti gli appartenenti a un determinato totem si riconoscono come parenti fra loro.

Il totem rappresentava la stretta relazione che c’è tra l’uomo e l’animale ma era usato anche per attirare qualità positive dell’animale. Vediamo alcuni esempi tratti dalla cultura amerindiana:
Alce: rappresenta il rispetto per se stessi,la forza e l’orgoglio. significato = farsi coraggio e valutare i risultati
Aquila: la forza divina,perché è l’animale che vola più in alto ed è quindi vicino al grande spirito. Serve a vincere le paure.
Bisonte: l’abbondanza;le invocazioni e le preghiere sono state ascoltate significato = tutto si può avere con l’aiuto del Grande Spirito.
Cavallo: rappresenta il potere ultraterreno,libertà. significato:ricordo del passato(vite passate), saggezza, amore
Falco: il messaggero,colui che ci avverte. significato = valuta la situazione da più punti.
Farfalla: rappresenta la trasformazione dell’anima,invita a cambiare le cose. significato = mettere in ordine, rinnovarsi.
Formica: esempio di animale fortemente dedito alla causa comune. significato = fiducia profonda.
Lupo: rappresenta l’equilibrio fra le necessità personali e quelle della famiglia. Lealtà verso il gruppo. significato = caccia e sintonia con il gruppo.

La relazione totemica, osservata anche in Africa, in Oceania ed in Asia, è molto diffusa e viva soprattutto presso alcuni indiani d’America e tra gli aborigeni australiani. In queste società il totem è spesso considerato un compagno o un aiutante con poteri soprannaturali e, come tale, rispettato e talvolta venerato. La più diffusa forma di Totemismo è quella di clan, estensione della famiglia coniugale e raggruppamento di parentela unilaterale, costituito da varie famiglie, i cui membri sono legati da un unico capostipite dal quale discendono in linea paterna o materna. Se due gruppi hanno lo stesso totem, si ritengono tra loro strettamente imparentati ed evitano matrimoni tra loro per non contrarre rapporti tra consanguinei. Di qui la connessione tra il totem ed il tabù, confermata dalla cessazione periodica del divieto di toccare il totem, come nella festa australiana Intichinma (pasto sacrificale del totem).Gli individui di un gruppo totemico si considerano in parte identificati o assimilati al totem, al quale si riferiscono con nomi e simboli speciali. La stirpe o il clan possono essere fatti risalire a un antenato totemico originario, che diventa il simbolo del gruppo e, tranne che in riti particolari, non può essere né ucciso, né mangiato, né toccato.

Il totem pertanto costituisce una specie di albero genealogico, le cui figure vanno lette dal basso verso l’alto, ovvero dai parenti più prossimi fino al capostipite. Si può costruire l’identikit di Totem? Certamente. Il tratto fondamentale èil linguaggio non verbale con cui si esprime: trattandosi di un’emozione, si fa vedere con la mimica, con il silenzio (è un formidabile omertoso Totem). Il testo Totem e tabù: somiglianze tra vita mentale dei selvaggi e dei nevrotici è un libro di Sigmund Freud, pubblicato in lingua tedesca nel 1913 con il titolo Totem und Tabu: Einige im Übereinstimmungen Seelenleben der Wilden und der Neurotiker. Si tratta di una collezione di quattro saggi pubblicati originariamente sulla rivista Imago (1912-13) utilizzando l’applicazione della psicanalisi nei campi dell’archeologia, dell’antropologia, e nello studio della religione. I quattro saggi sono intitolati: L’orrore dell’incesto; Tabù ed ambivalenza emotiva; Animismo, magia e l’onnipotenza dei pensieri, e Il ritorno del totemismo nell’infanzia.

Freud apre il suo libro evidenziando come esistano tutt’oggi popoli che vivono in una condizione che noi occidentali tendiamo ad attribuire ai nostri antichi progenitori. Le manifestazioni culturali, e i comportamenti di questi “selvaggi” studiati da Freud sono essenzialmente un riflesso di come dovevamo essere tutti noi nel passato, e l’organizzazione sociale che queste popolazioni adottano sono ricche di elementi che non ci portano a supporre il contrario. Freud confronta il comportamento e la struttura sociale dei “primitivi” con quello dei nevrotici, per dar modo di osservare come antropologia e psicologia possono essere collegate. Lo studio operato dall’autore si concentra sulla popolazione degli aborigeni australiani, che egli riteneva il più calzante esempio di civiltà primitiva esistente all’epoca, per usanze, costumi, struttura sociale e psicologia degli individui e della comunità. La più importante di queste manifestazioni culturali è sicuramente la complessa organizzazione in base ai Totem.

Ci si può chiedere quale sarebbe stato il destino della psicoanalisi se Freud, anziché radicalizzare le sue ipotesi pulsionali, si fosse aperto alle critiche portate al sistema da Jung, Adler, Rank, Ferenczi, nessuno dei quali ha mai negato la validità della scoperta dell’inconscio come attività mentale altra rispetto alla coscienza né la paternità freudiana di essa. Ci si può chiedere anche quale sarebbe stato il contributo della psicoanalisi alla cultura umana se essa, nella sua storia, anziché frammentarsi in una serie di scuole e di correnti, tutte caratterizzate dalla difesa pervicace di prinicipi differenziali ideologici o dommatici, avesse mantenuto una plasticità atta ad alimentare un dialogo e uno scambio con tutte le altre scienze umane e sociali. Dato che la storia non si fa con i se, e pur pensando che un’integrazione del genere, nell’ambito di una panantropologia, sia ancora possibile, occorre prendere atto di come le cose sono andate di fatto.

Da questo punto di vista, Totem e Tabù è un documento prezioso. Esso non nasce da un intento conoscitivo, ma polemico. All’epoca, il rapporto con Jung si va incrinando. Al di là dei motivi personali, vale a dire il sostanziale autoritarismo di Freud e lo spiccato narcisismo di Jung, il nodo del dissenso riguarda la teoria pulsionale e il rapporto tra psicologia individuale e psicologia collettiva. Jung sta imboccando la strada che lo porterà a disinvestire la libido di significati immediatamente sessuali e comincia a valorizzare l’esistenza a livello inconscio di archetipi simbolici che, con la loro potenza, sottendono e catturano la psicologia individuale. Freud rimane fermo alla teoria pulsionale e al principio per cui la psicologia collettiva è null’altro che la somma della psicologia dei singoli individui, la cui trama è assicurata dalle vicissitudini pulsionali.

Totem e Tabù nasce con l’intento di confermare questi assunti e di dimostrare che l’Edipo, già identificato come momento di passaggio cruciale ontogenetico, rappresenta la chiave filogenetica del passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura. Posta questa dimostrazione, Freud ritiene che ogni critica alla teoria pulsionale non abbia più senso. Il destino dell’uomo, e dell”umanità, rimane vincolato all’imbrigliamento di una sessualità che, nella sua originaria anarchia, comporta l’ostilità cieca nei confronti di qualunque limite alla sua soddisfazione. E, dato che questo limite è rappresentato nella fase edipica dal Padre, che ostacola l’accesso alla Madre, è il superamento del parricidio lo snodo del passaggio dalo stato di natura a quello di cultura, avvenuto filogeneticamente nella notte dei tempi, ma destinato a ripetersi all’interno di ogni esperienza individuale.

È importante delineare la struttura concettuale dell’opera per capire in quale misura Freud, sicuro di procedere oggettivamente, piega alle sue convinzioni il materiale antropologico che utilizza. La struttura concettuale si può ricostruire nei seguenti termini. Freud parte dall’assunto che la psicologia dei popoli primitivi, che conserva le tracce dei primordi dell’umanità, e quella degli psiconevrotici, caratterizzata dalla fissazione a stadi primari dello sviluppo, riconoscano delle singolari concordanze, sulla base dei quali l’antropologia e la psicoanalisi possono illuminarsi vicendevolmente. Avendo già definito il significato edipico della fissazione nevrotica, egli è dunque spinto ad analizzare il tabù dell’incesto. Si tratta di un tabù universale che si intreccia con il totemismo, vale a dire con una pratica culturale che assegna ad ogni clan un totem, da cui esso prende il nome.

Il totem è di solito un animale che rappresenta il capostipite del clan e, nello stesso tempo, il suo nume tutelare. I membri del clan soggiacciono all’obbligo sacro di non uccidere il loro totem e di astenersi dal consumare la sua carne. Un altro obbligo connesso al totem è l’esogamia, in virtù del quale i “membri di uno stesso totem non possono avere rapporti sessuali tra di loro e non possono quindi contrarre matrimonio”. Il tabù dell’incesto rientra in un più vasto ambito di divieti rituali che rappresentano nel loro insieme, per le popolazioni primitive, quello che il codice penale rappresenta per le nostre. Che cosa attestano i tabù se non che l’umanità ha avvertito originariamente la necessità di arginare con un rigido dispositivo di controllo sociale tutte le attività per le quali esisteva, nella natura umana, una forte inclinazione? Ciò è comprovato dal fatto che al rigore dei tabù corrisponde, ove essi vigono, una forte ambivalenza soggettiva. Li si rispettano, insomma, per paura dela punizione, ma forte rimane il desiderio di trasgredirli.

Freud rileva l’ambivalenza in rapporto a tre tabù di particolare interesse, che riguardano i nemici uccisi, i sovrani e i morti. In tutti e tre i casi, una forte ostilità latente viene compensata da forme di rispetto sacrale. Il parallelismo che Freud pone tra pratiche magiche e rituali ossessivi è, infine, interessante. Di fatto la necessità di eseguire i rituali, anche quando ciò avviene da parte di persone lucide, razionali e laiche, implica sempre il riferimento ad una logica susperstiziosa. Eseguendo i rituali, il soggetto coscientemente tiene sotto controllo l’ansia e si affranca dalla paura che possa accadere del male a lui stesso o ai suoi cari. Lo sappia o meno, egli deve rendere conto a “qualcuno” che lo controlla, dotato di un potere di rappresaglia senza limite. Che la soggezione ai rituali implichi dei sensi di colpa rispetto ai quali essi rappresentano una riparazione è fuor di dubbio, come pure che i sensi di colpa corrispondono a quote di rabbia represse. Ma che senso ha quest’esperienza? Freud non ha dubbi: “Un nevrotico ossessivo può essere gravato da un senso di colpa che si attaglierebbe al colpevole di una strage, anche se egli si è comportato verso il suo prossimo come il più riguardoso e scrupoloso dei compagni fin dall’infanzia. Eppure il suo senso di colpa è fondato: è radicato negli intensi e frequenti desideri di morte che inconsciamente si ergono in lui contro il suo prossimo”.

Ma perché infine le fantasie aggressive vengono identificate con colpe commesse? Secondo Freud perché a livello inconscio nei nevrotici vige lo stesso principio che sottende le pratiche magiche, vale a dire il riferimento all’onnipotenza del pensiero. Ora questo principio non sembra affatto presente nella magia, laddove la possibilità di interferire e di volgere a proprio favore le “forze” che trascendono l’uomo non si basa sull’onnipotenza del pensiero ma semplicemente sull’efficacia dei simboli nella misura in cui essi sono condivisi da una comunità. Non è l’onnipotenza del pensiero che destina a morte colui che è condannato a morte dallo sciamano: è che egli crede nella potenza dello sciamano. Negli ossessivi non si dà parimenti il riferimento all’onnipotenza del pensiero, bensì la paura, conscia e inconscia, di potere perdere il controllo sulle fantasie. Ma allora occorre ammettere almeno che egli sia impregnato di fantasie distruttive? Certamente, ma per il motivo opposto a quello addotto da Freud, identificabile in un bagaglio pulsionale particolarmente intenso. La rabbia infinita degli ossessivi è dovuta al fatto che essi, in nome della loro scrupolosità, la reprimono, non la usano mai anche nelle forme lecite e necessarie. Ciò detto possiamo argomentare, sulla matrice discettativa freudiana, che oggi il nuovo totem è il denaro, segno della supposta onnipotenza umana, ultimo vero padrone del mondo e della vita, oltre ogni confine etico o culturale, oltre ogni possibile tabù.

Qui vale la pena rifarsi ad un recente (2011) testo (edito da Rizzoli) di Vittorio Andreoli, dal titolo molto esplicito e significativo: ,”Il denaro in testa”, che fa riflettere al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole, ha avuto e soprattutto ora ha su tutta la storia dell’uomo, le violenze fatte e le angherie subite. Anzi, a dirla con il Freudiano-Adlleriano Andreoli, due soni i grandi totem delle tirannie umane, vecchie e nuove: il denaro e le religioni, Dio e Mammona, totem che hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.”Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio”. Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico. La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà.

Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori. Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche – settore sonnolento – non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione. Poco praticabili sono poi poi alcune sue ricette troppo candidamente da alcuni prospettate: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la “giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi… tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno”; ma i tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio.

Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese. La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni – più economia di business che di mercato – può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani. Ora, dal fondo della nostra cultura spirituale, dai totem più autentico e meno culturalmente pervertito o omogenati dalla globalizzazione, dovremmo ricordare le parole della preghiera semplice di Francesco (“È dando che si riceve”) o di quelle più articolate del Vangelo di Giovanni (“Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo”); per farci chiaro che la ricchezza ci chiude, invece di aprirci al don ed è davvero fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa.

E invece oggi, la povertà diviene peccato, anzi peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve. La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica. Denaro e globalizzazione, questi i nuovi tiranni totemici di questi anni. Globalizzazione ha più l’accezione di villaggio globale e non mette bene in luce cosa veramente sia il globalismo, ossia la distruzione delle Identità razziali, soprattutto europee,a favore della massificazione economica e consumistica. La globalizzazione nasce ovviamente dagli Usa con l’obiettivo di standardizzare la Terra ad immagine e somiglianza degli Stati Uniti stessi: uno sterminato centro commerciale senza Razza, sesso, salute, censo, religione, tradizioni, ideali, in cui gli uomini sono ridotti a una promiscua brodaglia inquadrata dal denaro che è l’unica cosa che veramente conta per gli Americani e i loro collaborazionisti mondiali.

Più che globalizzazione dunque meglio parlare di mondialismo e cioè di sordidi intrallazzi planetari, ai danni dei Popoli, per opera delle lobby che dominano sull’America e sull’Europa, aventi come unico scopo il livellamento globale dei continenti e degli uomini e la creazione di un mondo raso al suolo e riedificato sulle marce fondamenta dell’universalismo finanziario. Mark Alonzo Hanna, consulente del presidente USA William McKinley e mitica figura di organizzatore di campagne elettorali, citato anche da Bush jr., ebbe ad affermare nel 1896: “Per vincere occorrono due cose. La prima è avere molti soldi… La seconda non me la ricordo”.Ed è per questo che la scalata dei signori del denaro non è iniziata all’interno dell’area politica o delle istituzioni rappresentative delle singole nazioni. Si è sviluppata dove i soldi si fabbricano, all’interno delle Banche centrali, affiancandone l’attività con una miriade di istituzioni internazionali, enti, fondazioni, banche di credito e d’affari tutte rigidamente dirette o controllate tra loro.

Una ragnatela così ampia e articolata da consentire il progressivo condizionamento planetario di tutte le attività. Ecco qui un elenco delle più importanti: La Trilateral Commission, il Council on Foreign Relations (CFR), il Bilderberg Group, il Club de Paris, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Camera di Commercio Internazionale, l’Institute of International Finance, il Forum di Davos; e, ancora, il Comitato di Bali, per la supervisione bancaria; l’IOSCO (International Organisation of Securities Commissions), per la supervisione delle Borse e dei mercati di capitali; l’ISMA (International Securities Market Association); l’IAIS (International Association of Insurance Supervisors), per la vigilanza sulle compagnie di assicurazione; e l’ISO (International Standard Organisation), alla quale è demandato l’incarico di definire gli standard industriali, tanto per citarne i più noti e importanti.

Al condizionamento politico ed economico delle singole nazioni, attraverso il controllo monetario, si aggiunge il potere di influire sui rapporti internazionali. Poco importa se intere nazioni, nel gioco delle speculazioni, sono travolte e ridotte alla fame — vedi i paesi dell’America Latina — o altre vengono a trovarsi in posizione di immeritato vantaggio. Un esempio tra i tanti che si potrebbero fare: il 30 per cento dell’intero ammontare dei prestiti concessi dal Fondo Monetario Internazionale attualmente è assorbito dalla Turchia — favorita dalla sua posizione geo-strategica nel Vicino Oriente — che va salvata per non far perdere un forte alleato a Stati Uniti e Israele. Inoltre, attraverso il flusso dei finanziamenti, si attivano tutte quelle iniziative che si ritengono funzionali al disegno mondialista e si condizionano pesantemente — spesso sino a stravolgerle — anche quelle iniziative che, a prima vista, potrebbero apparire di segno opposto. Esempio particolarmente eloquente ne è il Movimento dei “No Global”.

Maurizio Blondet, nel suo libro “No Global”, ci informa che, contrariamente a quanto la pubblica opinione è indotta a credere, «l’International Global Forum è largamente finanziato dalla Foundation for the Deep Ecology, un think-tank con sede a San Francisco, erede delle fortune del magnate Douglas Tompkins, il padrone della Esprit Clothing Company, la nota multinazionale di prêt-à-porter. Detta “Fondazione per l’Ecologia Profonda” nel 2000 ha dichiarato attivi per 150 milioni di dollari: grazie a questi fondi essa funziona come una finanziaria, che fornisce capitali iniziali per il lancio di gruppi antiglobal in tutto il pianeta”. Ed ancora: tra i “finanziatori dei “No Global” spicca un nome: Theodor (Teddy) Goldsmith. […] Teddy è il fratello minore del defunto sir James Goldsmith, speculatore mondiale in materie prime, uno dei dodici uomini più ricchi del mondo, cugino dei Rothschild”. Procedendo nella sua indagine, Blondet mette in luce anche le relazioni che legano il mondo dei “No Global” a un altro celebre miliardario, George Soros. “Ebreo ungherese naturalizzato americano, Soros è diventato enormemente ricco e famoso con speculazioni internazionali sulla lira negli anni 90, il genere di operazioni possibili nel mercato globale. […] Soros finanzia anche un’altra fondazione “culturale”, il Lindesmith Center-Drug Policy Foundation, che impiega enormi mezzi per fare lobby a favore di una politica di totale liberalizzazione delle droghe e per la legalizzazione dell’eutanasia, naturalmente a livello mondiale”.

Dunque, ovunque si cerchi, escono fuori soldi, enormi quantità di soldi, attraverso i quali i soliti signori indirizzano, determinano, controllano. Per ciò che riguarda l’Europa, taluni sono indotti a credere che l’Euro sia il punto di arrivo spontaneamente perseguito dalle nazioni del Vecchio Continente, nel quadro della loro volontà di unificazione. Il professor Joshua Paul, docente della Georgetown University, ha pubblicato nell’autunno del 2000 una serie di documenti del Bilderberg Group, sino ad allora tenuti segreti, che documentano come da cinquant’anni quegli ambienti stessero lavorando perché l’Europa si dotasse di un’unica valuta. Già nel 1948 le Fondazioni Ford e Rockefeller avevano dato vita all’American Committee for a United Europe, con lo scopo di condizionare lo sviluppo monetario, economico e politico del nostro Continente in modo convergente agli interessi d’Oltreoceano. Un memorandum della sezione Europa del Dipartimento di Stato americano, in data 11 giugno 1965, riporta precisi suggerimenti al vicepresidente della Comunità Economica Europea, Robert Marjolin, per giungere al varo di un’unica valuta europea, non come concorrente del dollaro, ma come agevole mezzo di controllo delle economie delle singole nazioni europee.

È infatti molto più semplice controllare un’unica entità monetaria e un’unica Banca centrale indipendente, piuttosto che quindici valute e quindici Istituti di emissione con ancora qualche residuo legame con i ministri economici, i governi e il mondo politico. All’articolo 7 dello Statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea si legge: “Né la BCE, né una bemanca centrale nazionale, né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni o dagli organi comunitari, dai governi degli Stati membri, né da qualsiasi altro organismo”. Le Banche centrali delle singole nazioni europee, prima del Trattato di Maastricht, avevano un’indipendenza dal potere politico variabile tra il 40 e il 65 per cento; oggi, dopo i cambiamenti determinati dall’avvento dell’Euro, hanno raggiunto il 90 per cento. Dunque, mentre nessuna influenza può giungere dal potere politico alla BCE, dai vertici monetari giungono al potere politico continue indicazioni, parametri cui attenersi, precisi paletti che coinvolgono l’intera economia delle nazioni.

Come giustamente osserva Bruno Tarquini, già procuratore della Repubblica a Teramo, nel suo “La banca, la moneta e l’usura”, “lo Stato ha rinunciato alla propria sovranità monetaria, trasferendola a un istituto privato: questo perciò, in perfetta autonomia e indipendenza, esercita una pubblica funzione di essenziale rilevanza per la vita della Nazione, essendo noto che la politica monetaria (vale a dire l’emissione della moneta e la regolamentazione della sua circolazione nonché del mercato monetario) condiziona l’intero sistema economico di uno Stato e influisce quindi anche sulla sua politica generale, e particolarmente su quella sociale”. È davvero singolare come il Trattato di Maastricht si sia preoccupato di definire la BCE esclusivamente per ciò che riguarda la sua indipendenza. Francesco Papadia e Carlo Santini, nel loro “La Banca centrale europea”, ricordano: «Dalla lettura del Trattato emerge la particolare collocazione della Banca centrale europea nell’assetto istituzionale dell’Unione europea.

L’articolo 4, infatti, non la menziona tra le istituzioni (Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia e Corte dei conti) della Comunità. Alla Banca, però, il Trattato conferisce personalità giuridica e lo Statuto riconosce la più ampia capacità di agire in ciascuno degli Stati membri. Sotto il profilo giuridico-formale, la Banca centrale europea non è, dunque, un’istituzione comunitaria […], i suoi atti non sono imputabili alla Comunità. La Banca centrale europea è inserita in una cornice giuridica che ne stabilisce e ne tutela l’indipendenza nell’attuazione della politica monetaria”. La BCE determina dunque, in perfetta autonomia — come se ciò non avesse rilevanza politica e sociale —, il livello dei tassi di interesse ufficiali, cioè il costo del denaro, cioè la politica di espansione o di restrizione monetaria. E, se non bastasse, decide e guida, in perfetta indipendenza, tutte le operazioni di acquisto e di vendita degli euro contro altre valute sul mercato dei cambi.

E le Banche centrali nazionali devono conformarsi in tutto e per tutto alle direttive della BCE — il Consiglio direttivo vigila attentamente —, altrimenti bacchettate sulle dita, con tutto il potere per farlo. La BCE, e di conseguenza anche tutte le Banche centrali nazionali, ufficialmente — ormai è scritto a chiare lettere, nero su bianco, nei Trattati e nei Regolamenti — non possono concedere, per nessun motivo, crediti agli Stati, o alla Comunità europea o a qualsiasi altro soggetto pubblico, e quindi è loro proibito acquistare titoli di Stato, sia al momento dell’emissione che successivamente. Non solo, se prima di Maastricht qualche Banca centrale, come abbiamo già ricordato, poteva prevedere un parziale ristorno allo Stato del signoraggio — reddito ottenuto attraverso la politica monetaria —, alla BCE si fa obbligo di non fare uscire neanche un centesimo dalle casse del Sistema europeo di banche centrali. E, ancora, mentre i dibattiti e le sedute della Camera dei deputati e del Senato sono aperti al pubblico, le sentenze delle Corti di giustizia devono essere dettagliatamente motivate e pubblicate, le riunioni del Consiglio direttivo della BCE sono assolutamente secretate ed è lo stesso Consiglio che, di volta in volta, decide se pubblicare le proprie deliberazioni, pubblicarne solo alcune parti o non pubblicarle affatto.

Infine, ciliegina sulla torta, i dirigenti della BCE godono di una sostanziale immunità. Non sono infatti previste, all’interno della BCE, sanzioni per comportamenti impropri. Nei Regolamenti si legge che è sufficiente il rischio di perdere credibilità e fiducia per garantire la certezza dell’operato dei dirigenti. Solo in caso di colpe gravissime e di comportamento palesemente illegittimo può intervenire la Corte di giustizia e occuparsi del caso. La perdita delle sovranità monetaria e legislativa — parti essenziali della sovranità nazionale — da parte degli Stati europei è stata stabilita in maniera irrevocabile. E alla chetichella. In Italia, come sottolineò Ida Magli su “il Giornale” dell’11 marzo 2001, «nella legge di riforma della Costituzione, approvata dalla maggioranza di sinistra in gran fretta poche ore prima dello scioglimento delle Camere, c’è un passo fondamentale e che pure non è stato portato a conoscenza dei cittadini né prima né dopo della sua approvazione. Si tratta dell’articolo 117 in cui si stabilisce: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. In queste tre righe è codificata la perdita della sovranità legislativa dell’Italia. Per questo l’articolo 117 non è stato discusso apertamente: gli italiani non debbono sapere”. Forse, la democrazia è proprio questa.

Da qualche parte si è sentito il dovere di coinvolgere ed ascoltare il popolo attraverso regolari referendum, e lì — vedi il caso della Danimarca, Francia e Olanda — Maastricht ed Euro sono rimasti lettera morta. Il popolo ha detto no. Grazie ai NO dei francesi e degli olandesi ora il trattato di Maastricht è entrato in crisi. Probabilmente ci saranno altre defezioni tra breve. Nell’epoca del denaro virtuale, della “e-money”, cioè del soldi che non esistono, ma che possono determinare il benessere o la povertà per intere popolazioni, la ricchezza o la rovina per intere categorie, è, in fondo, logico che il sistema politico dominante sia quello democratico, dove “sovrano” dovrebbe essere il popolo, ma a decidere sono solo i banchieri e le loro “lobbies”, dove si confondono le alchimie monetarie con i referendum popolari, dove le maggioranze possono essere del 13 per cento, dove si scambia la libertà con l’obbligo a consumare, la dignità con il possesso di una carta di credito, la patria con un titolo quotato in borsa, la vita con la storia di un conto corrente.

Di fronte ai grandi temi di attualità le uniche risposte sono quelle ispirate dall’interesse dei soliti gruppi finanziari. E nessuno si ribella, perché non c’è più un potere politico rappresentativo e autorevole da cui aspettarsi risposte differenti, autonome, ispirate dall’interesse della collettività. E ciò che dal 2008 ad oggi accade in tutto il mondo occidentale, ci dice che stiamo vivendo tempi duri, anzi durissimi. Quando il cloroformio del benessere consumista si sarà esaurito, quando il bailamme di gadget, telefonini, computer sarà andato in tilt, quando il “luna park” di supermercati e centri commerciali sarà rimasto senza prodotti, i popoli necessariamente dovranno riscoprirsi, rifondarsi, tornare ad esistere con la propria specifica identità e la propria cultura. E il sistema consumista, monetario e del Libero Mercato è un sistema entropico. Un sistema destinato, prima o poi, a spegnersi. Esso si basa infatti sul continuo aumento dei consumi, quindi della produzione, quindi dello sfruttamento delle risorse. Un aumento che non può essere infinito e quindi, giunti al punto in cui la disponibilità dei beni sarà inferiore alla quota d’incremento necessaria al perpetuarsi del sistema consumistico, si giungerà a un’implosione economica. Sarà un momento durissimo.

Ho ascoltato recentemente da un’anziana il racconto dei tempi, non poi così lontani, in cui nelle nostre valli mancava tutto quello che oggi c’è. Si mangiava polenta, latte, castagne, formaggio, cotenne e qualche raro insaccato. Ma non tutto ciò era disponibile sempre; un giorno si mangiava questo, l’altro quello; la povertà era grande. Spesso, tra gli abitanti del villaggio, ci si riuniva e, allora, le cose andavano meglio perché c’era chi portava cotenne, chi cipolle, chi polenta, chi un salame, chi una ciotola di latte. «La miseria ci teneva uniti, e ci ha consentito di superare anche gli inverni peggiori», fu la conclusione del racconto. I nostri popoli hanno dimostrato già in molte occasioni di saper superare prove tremende, sviluppando una forza e una capacità solidale oggi insospettabili. Anzi, le qualità migliori le abbiamo espresse nei periodi più duri e in quelli della ricostruzione. Qualità che i signori delle banche internazionali non sospettano nemmeno e sicuramente non hanno preventivato.

I popoli europei, oggi ridotti a bracciantato per i servizi necessari allo sviluppo della nuova economia, quella della globalizzazione e delle multinazionali, sapranno ritrovare le proprie caratteristiche produttive e creatrici. Non resteranno, storditi, affamati, accampati accanto agli aeroporti, ad attendere l’arrivo degli “aiuti umanitari”, come avviene in molti paesi del terzo mondo. I popoli europei non accetteranno i nuovi ricatti di qualche nuova Banca internazionale e sapranno ritrovare la sopita passione per la libertà e l’indipendenza. La lotta per la Libertà è una costante nella storia degli uomini. La lotta dei popoli per la Libertà e la Sovranità sarà il tema dominante della storia di domani e saranno i nuovi totem attraverso cui instaurare rinascimenti ed appartenenze.

Ma, per un discorso più alto e meno semplicistico o emotivo, posiamo chiamare in causa il filosofo tedesco Oswald Spengler (1889-1936): probabilmente il maggior erede di Nietzsche, della sua fedeltà alla terra e della volontà di potenza, oltre che un continuatore del relativismo storicistico di Dilthey e, quindi, il legittimo continuatore della tradizione filosofica tedesca di fine Ottocento. La prima è una dimensione “popolare”, che vede la contrapposizione pura e semplice fra mondo della natura e mondo della storia. Il mondo della natura è statico, quello della storia è dinamico; il mondo della natura è sottoposto a leggi regolari e costanti, quello della storia è unico e irripetibile. La seconda dimensione è, propriamente, quella della filosofia della storia, basata sulla concezione organicistica delle civiltà, che egli assimila a degli organismi viventi. È questo l’aspetto più noto della sua concezione filosofica, quello che ha destato maggiori consensi ma anche le critiche più pesanti, da parte di coloro i quali hanno evidenziato l’arbitrarietà di una analogia in senso stretto fra la vita degli organismi e la «vita» delle civiltà umane. La terza prospettiva, che potremmo definire metafisica, è quella che ruota intorno al concetto spengleriano di “anima” delle civiltà.

È qui che il pensatore tedesco ha sviluppato la parte più originale delle sue riflessioni, istituendo complessi e vorticosi parallelismi fra gli elementi formali delle singole civiltà e spaziando, con tono ispirato e quasi da veggente, attraverso i campi più svariati dell’arte, della scienza e della tecnica. Ed è qui che ha dispiegato quel suo stile turgido e solenne, drammatico e affascinante, che gli ha conquistato la simpatia di tante schiere di lettori ma anche, inevitabilmente, la diffidenza o il disdegno di molti filosofi di più austera concezione, ivi compresi gli idealisti ideali e, segnatamente, Benedetto Croce. Come ha osservato Domenico Conte, sono almeno tre le prospettive dalle quali Spengler osserva il movimento della storia universale. Con Sprengel possiamo dire che sarà necessario, per l’Occidente, alla globalizzazione totemica del denaro, se si vuole sopravvivere, attraverso la convinzione che esso Occidente non ha né ha prodotto nulla di speciale per sfuggire al destino di tutte le altre civiltà ed anzi, essa è già entrato e da tempo, nella fase del gigantismo delle sue creazioni esteriori e dal progressivo esaurimento del suo spirito vitale. E bisogno recupare una nuova capacità di guardare alla verità e di correggerne, ovve necessario, i valori, senza tacerne storture e imbrogli. La cosa che il feticcio non approva non deve essere fatta, ma non si dice perché non deve essere fatta: Non è espressamente proibito dire questo o quest’altro, ma non va fatto, proprio come in epoca vittoriana non andava fatto di nominare i pantaloni davanti a una signora. (George Orwell, La fattoria degli animali, postfazione).

Durante lo scandalo dei preti pedofili il mio parroco lesse la lettera del vescovo sull’argomento e, di suo, concluse con un commento che era anche un’ingiunzione: Non parlatene tra di voi. È il trionfo della legge totemica e criminale. Inoltre, in questo caso, la norma mafiosa si accompagna alla nozione di sacro. Essendosi affievolito il sentimento del sacro, è venuto alla luce uno scandalo, la pedofilia nel clero, che perdurava da secoli, ma rimaneva ben nascosto sotto la cenere dell’ipocrisia totemica (non per caso, il papa aveva avocato a sé la trattazione dei casi di pedofilia, perché non se ne parlasse). Essendo un’emozione, Totem ha mille sfaccettature; fra queste l’aspetto sociale. I Totem, quando non litigano, vanno d’accordo fra loro: ecco un’altra legge che si cuce a pennello sul vestito totemico, che dobbiamo imparare a stracciare. Il totem si dipinge anche di molte regole, di vari vincoli e le troppe leggi sono un altro dei totem tirannici (e quindi errati) oggi da abbattere. Con la globalizzazione il mondo è radicalmente cambiato e nella globalizzazione la competizione non è più solo tra imprese, ma anche tra blocchi continentali e sistemi giuridici. In linea di principio si può essere a favore o contro la competizione economica globale. Ma in concreto non si può fare finta che non ci sia. Non ci si può illudere che tutto possa continuare come prima.

Nello scenario globale che si è aperto, l’ Italia ha davanti a sé l’ alternativa tra declino e sviluppo. Se si vuole lo sviluppo si deve cambiare, a partire dal dominio giuridico. Che effetto ha prodotto e produce sull’attività d’impresa l’attuale bulimia giuridica, la massa sconfinata e crescente di regole? Alcuni dati ne danno la cognizione…. Come agire su questa massa di regole, per ridurla? Una prima tecnica è quella dell’“abrogazione”. È questa senz’ altro una buona tecnica, ma non risolve definitivamente il problema. Le uova depositate dal serpente legislativo si riproducono infatti in continuazione. E anzi, paradossalmente, tra il beneficio che dà l’ abrogazione di una legge e il maleficio costituito dallo stress normativo che l’innovazione comunque causa, il saldo rischia di rimanere comunque negativo. Una seconda tecnica è quella della “delegificazione”, passare cioè dalla legge al regolamento, che è come passare dalla padella nella brace. Perché i regolamenti sono pesanti come le leggi ed essendo intercambiabili non alleggeriscono ma anzi spesso appesantiscono la burocrazia. La terza tecnica è quella della «semplificazione». I processi e i metodi adottati in passato nel nostro Paese sono stati utili, ma non risolutivi. Le norme dirette a semplificare si sono infatti esse stesse strutturate come «lenzuoli» normativi, che a loro volta hanno prodotto decreti legislativi torrenziali e dunque ulteriori alluvioni di normative.

In sintesi le pratiche sopra citate hanno prodotto e possono produrre risultati buoni, ma ancora insoddisfacenti: come i tentacoli dei mostri mitologici, per ogni legge delegificata rinasceva un regolamento, per ogni norma di semplificazione rinascevano una o più norme di complicazione. In realtà il nodo di Gordio, la metafora millenaria della semplificazione, non si scioglie ma si taglia con un colpo di spada. Con una norma che dia efficacia costituzionale e definitività al principio di responsabilità, alla autocertificazione, al controllo ex post, estendendoli con la sua forza obbligatoria a tutti i livelli dell’ordinamento, superando così i problemi del complicato riparto delle competenze legislative, con cui lo stato si ammanta di falsi, insuperabili totem di portata globale e globalizzante. Oggigiorno, è opinione diffusa e unanimemente accettata che la ragione, specie sotto la forma di razionalità laica, sia il bene più grande conquistato dall’umanità. Di là dai facili proclami e dalle frasi fatte, possiamo realmente credere sia così? La questione è spinosa e non può essere risolta in poche stringate battute: esige riflessione, studio, meditazione ecc. Che la logica sia una cosa ben riuscita è un vantaggio per tutti.

Io non credo che la metafisica sia una conoscenza speculativa della ragione. La metafisica, soprattutto dall’illuminismo, non ha ricevuto granché… essendo stata spesso relegata in un angolo buio della storia dell’uomo. In lei, com’è prevedibile, la ragione si perde, non riesce a sbrogliare la matassa, persino quando pretende, a priori, quelle leggi che sono confermate dall’esperienza. La scienza tradizionale rimanda ai principi, non agli oggetti sensibili. Il pensiero moderno, affrancato da ogni legame anagogico, può affermare tutto e il suo contrario, poiché le sue basi sono rette sul nulla. Oggi tutto ha uno scopo economico, tutto è asservito agli interessi delle tecnocrazie mondiali, persino il sapere. Guènon faceva risalire tale processo di degenerescenza da Cartesio in poi, dove incomincia il processo di “rovesciamento” e dove, soprattutto, si instaurano le basi per il pensiero solipsista. In realtà, i prodromi del pensiero razionalista hanno origini ancor più remote.

Infatti, mentre con Pitagora assistiamo a un autentico ricollegamento Tradizionale del sapere, con Parmenide, per converso, riceviamo la prima deviazione razionalistica. Infatti, costui pur partendo da premesse simboliche tradizionali, concluderà il suo cammino nella deviazione razionalistica. Mircea Eliade asseriva che qualsiasi edificio portasse con sé un effetto archetipico, destinato a ritrarre la cosmogonia delle origini. Difatti, il complesso delle procedure geometriche rivolte alla costruzione del Tempio, si fondavano sull’attivazione dei Principi Metafisici dell’Ordine Universale. In virtù, quindi, della legge dell’analogia che mette in relazione il Macrocosmo al Microcosmo. La Sapienza Tradizionale era quindi intellettuale e spirituale e, quindi, simbolica. Di qui ne discende lo studio per la Geometria simbolica che – in tale ambito – assume un’importanza fondamentale.

Ecco allora che “sgrezzare la pietra grezza” per supeare la tirannide e giungere alla libertà, equivale a portare le conoscenze divine e cosmologiche nel Cuore dell’individualità umana. Il fatto che moltissimi “iniziati virtuali” non siano riusciti ad interpretare un “segno” e a interiorizzare elementi pregnanti e svelanti, non significa togliere importanza al “Simbolo”. Anzi. Non penso che la razionalità ci dia la possibilità di sgrossare la pietra grezza e, indi, liberarci dai vili metalli, per il semplice motivo che essa nega l’esperienza dell’origine e costruito un mondo fatto di certezze razionali indubitabili, negando l’angoscia e la lacerazione, che il fondo dei totem autentici. Così facendo si tace colpevolmente sul significato reale dell’anima, eliminando – una volta per sempre – la dimensione unica dell’uomo, basata sulla benevolenza, applicando la quale, è possibile superare ogni tirannide nel governo umano.

Ci insegna Confucio che l’individuo non è un’entità isolata, ma, al contrario, egli ritiene che l’uomo sia tale solo nella sua relazione con gli altri, o in altre parole, che l’umanità di ogni singolo individuo si fondi nel rapporto con la molteplicità degli altri uomini. Ciascuno poi perviene alla benevolenza (detta Rèn) in modo unico e diverso dalle altre persone. Tuttavia essa non ha nulla a che vedere con la dimensione interiore intesa in senso psicologico, ma è un valore etico riferito al mondo esterno, basato essenzialmente sul rispetto delle differenze. L’uomo, partendo da se stesso, disciplinandosi attraverso lo studio, comprende di essere orientato alla benevolenza verso i suoi simili, desiderando solo il bene per se stesso e per gli altri. Ecco ciò che il Maestro esprime appieno con l’adagio: “non imporre agli altri quel che non desidereresti per te stesso”.Questa è la strada che Confucio ci esorta a seguire la Via. Ciò che è importante sottolineare, ciò che è fondamentale nella dottrina di Confucio, è che l’uomo si innalzi moralmente, staccandosi dalla dimensione personale intesa come brama di successo e di visibilità. Quella materia grezza di cui alla nascita l’uomo si trova provvisto, va coltivata affinché prenda una forma definita.

L’uomo rimane sulla retta Via solo confrontandosi con chi gli sta intorno, dapprima con coloro che gli sono più vicini, e poi allargando il cerchio verso tutti gli uomini. Perché è solo dal confronto con gli altri che si possono scorgere in sé le tendenze maligne ed estirparle, fino al conseguimento del Rén. Il carattere Rén è dunque “umanità reciproca”, poiché il termine “umanità” contiene il significato di amore umano, di profonda comprensione che l’uomo sviluppa in sé e poi attua nei confronti degli altri, e la parola “reciproca” rimanda alla reciprocità a cui molte volte Confucio ha fatto riferimento per esprimere il più alto valore, il Rén. Realizzando la propria benevola umanità ed estendendola alla molteplicità delle persone, l’uomo può davvero giungere al Rén. La chiave di tutto è fidarsi di sé, vivere al servizio dei propri sentimenti, assistere al trionfo delle emozioni e della loro potenza, fare solamente quello che sentiamo. Contrapporre l’espressione alla repressione, abbandonare la dittatura della testa e scendere verso il nostro cuore, che sia lui a guidarci, a governare. Ecco la formula magica, tanto semplice quanto radicale, per realizzare il benessere emotivo prima, fisico e sociale poi. Nichilismo ed edonismo sul piano filosofico si identificano perché se non ci sono norme morali, fini, mete superiori resta solo la ricerca del proprio piacere o del proprio benessere nei modi classici, epicureo o stoico.

Il marxismo che si legittima come “socialismo scientifico” è fondato sul niente perché la scienza non garantisce niente. Come conseguenza ultima del pensiero di Rousseau e degli illuministi è fondato sull’assunto che la natura umana è buona ed è stata corrotta dalla nascita delle classi. Basterebbe perciò una riforma della struttura sociale per farla tornare nello stato originario. Benedetto XVI obietta a questo tipo di soluzioni che questa gente ignora la libertà della natura umana che deve prendere ogni volta le sue decisioni. Noi non potremmo nemmeno incominciare ad agire, non potremmo affrontare il futuro oscuro, incerto, imprevedibile senza la speranza. La speranza è perciò prima di tutto un dono, è “grazia” ma ogni singolo uomo ha anche delle risorse morali positive su cui contare. Forza d’animo, adattamento, apprezzamento per la vita, capacità di superare gli ostacoli, di affrontare nuovi problemi, di cercare la propria anima, di dedizione, di amicizia, oblazione.

Letture consigliate
Andò S., Sbalò C.: Oltre la tolleranza. Libertà religiosa e diritti umani nell’età della globalizzazione Ed. Marco Valerio, Roma, 2010.
Aron R.: Machiavelli e le tirannie moderne, Ed. Sean, Roma, 1993.
Conte D.: Introduzione a Spengler, Ed. Laterza, Bari, 1997.
Freud S.: Totem e tabù. Psicologia delle masse, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
Freud S.: Totem e tabù e altri Saggi, Ed. Newton & Compton, Roma, 2010.
Lanciotti L.: Confucio: La vita e l’insegnamento, Ed. Astrolabio Ubaldini, Roma, 1997.
Leboyer L.: Confucio, Ed. Luni, Milano, 2001.
Osho: La libertà. La speranza di essere se stessi, Ed. Mondadori, Milano, 2010.
Sen A.K.: Globalizazione e libertà, Mondadori, Milano, 2003.
Stiglitz J.E.: La globalizzazione e i suoi oppositori, Ed. Einaudi, Torino, 2002.